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16/03/2007.  PERSONAGGI - Piripicchio da Barletta, il maestro della risata in strada.



I miracoli dell’arte. Ricordata a Bari (Feltrinelli) la figura del caratterista barlettano

«Era un bel giorno di maggio/il sole coceva coceva/il fringuello cantava cantava fi fi fi...fi fi fi...fi fi fi (una fischiettata) ”. Chi non ha mai sentito cantare questa filastrocca? L’autore? Un giullare povero. Povero nelle tasche elegantemente ricucite ma ricco di un’arte antica, fatta di movenze e smorfie dalle affabulazioni popolari.

Tutto questo era Michele Genovese nato a Barletta il 5 luglio del 1907 che portò le sue macchiette per le strade pugliesi, il suo elegante portamento, i ritratti forti del suo viso e la voce sopraffina e stralunata e a volte volutamente goffa hanno fatto di Piripicchio l’arlecchino del Mediterraneo. “In arte Piripicchio ” è il titolo della conversazione sull'artista barlettano che si è tenuta alla Feltrinelli di Bari. Una nostalgia di leggerezza in chi l’ha conosciuto nel suo girovagare nelle controre, un sussulto, un’attesa, un sorriso ad ogni sua mossa, la canzonetta scanzonata, le rime baciate, gli sberleffi, la sua faccia in prestito dai trovadori, la sua bombetta che diventa cachet volontario e grano per il pane, i suoi baffi alla Charlot, il bastone per affondare stupore nei bambini in calzoni corti raccolti intorno alle fontane.

Era nobile nelle mosse Piripicchio, movimenti fluttuanti e geometrici che trovavano un equilibrio di grazia e sincronismo, un movimento che andava al di là della fisica, della ragione e del tempo allestendo un teatro virtuale intorno a lui, un palco di strada e di terra, un sipario di palpebre danzanti, un miracolo dell’arte antica che ci manca molto. «Era una figuretta elegante e paradossale, grottesca e poetica - Scrive Michele Mirabella nella prefazione del libro “L'ultima mossa - omaggio a Piripicchio “ il percorso iconografico realizzato da Angelo Saponara con i testi di Lino Angiuli, le note introduttive di Vito Maurogiovanni, Edigio Pani e Enzo Spera - Un dandy rusticano che si muoveva nella ammiccante ed eccessiva eleganza di un tight consunto dalle angherie di tournée defatiganti per polveri assolate e strade spalancate al sole. Completavano il costume un cravattino comme il faut e un bastoncino di bambù. Non mancava mai di ostentare un fiore bianco e freschissimo all’occhiello.

Un clown nostro che si aggirava instancabilmente con il suo repertorio antico più che vecchio, intrecciando lazzi da vaudeville con memorie di perdute atellane, frizzi candidamente osceni, canzoni malinconiche intarsiate di sberleffi improvvisi con filastrocche sull'amore e sulla lontananza». Così viene fuori la sua personalità nobilmente umile, certo se alla fine della guerra il giovane Michele Genovese fosse andato a vivere a Roma avrebbe conosciuto ben più confortevoli palcoscenici, ma a lui i vicoli piacevano, la sua genialità cannibale ed invadente trovava pubblico come affluenti, una maschera che oggi noi proviamo ad indossare e che ha l’effetto di una macchina del tempo, attraverso questo viaggio fotografico di Saponara e le testimonianze vivide di Lino Banfi o come semplici testimonianze di gente comune che conserva ancora forte nell’immaginario comune popolare il ricordo di quel saltimbanco alla cui arte oggi si rende giustizia, una perla perduta di un ornamento folclorico che va a completare quell'affresco popolare in cui ritroviamo Dario Fo, Pier Paolo Pasolini e Rocco Scotellaro.

Qualcuno dirà «accostamenti troppo azzardati per un pupo carnevalesco» ma Piripicchio è oggi veramente l’ultimo baluardo della lentezza del nostro sud. «Era il Charlie Chaplin pugliese, una maschera irresistibile a cui bastava una bombetta nera calzata in testa, un paio di baffetti e un bastone sottile che accompagnava con gesti allusivi le sue battute - si legge nel saggio introduttivo di Egidio Pani - con la sua morte, sopraggiunta nel 1980, la tradizione dell’avanspettacolo povero ha perso il suo ultimo testimone. Era lì nello spiazzo, nella strada, nel palcoscenico senza scena dove si esibivano personaggi incredibili che venivano dal profondo della società, da miserie ed emarginazioni, nelle storie non dette e tutte scritte sui loro volti che ho colto la bellezza del sincero mostrarsi teatrale, dell’essere “maschera ”, intuito il senso misterioso della rappresentazione: necessità della gente di vedersi, prima ancora che di essere vista. Di applaudirsi, prima di applaudire. Era lì, in luoghi minuscoli, per strade, nelle piazze il regno dell’Arte, interpretata da affamati eroi, Artisti senza Arte».

Cosimo Damiano Damato

Fonte: La Gazzetta del Nord Barese 24.2.2007







 

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