16/03/2007. ARCHEOLOGIA - Museo provinciale di Bari: chi l’ha visto?.
Un convegno a maggio. Un grande patrimonio (trentamila reperti circa) della provincia è tenuto da anni nascosto ai cittadini. Il clamoroso furto del 2004 (di cui non s’è saputo più nulla) e le promesse del 2005. Un coma irreversibile?
Chi l’ha visto? Sempre più spesso ci arrivano in redazione missive ed e-mail che ci chiedono conto sul Museo archeologico provinciale di Bari: un «desaparecido»! È una richiesta, quasi rassegnata, dei baresi (di città e di provincia), che da anni si son visti scippare un patrimonio culturale di notevole importanza. Di quel Museo è rimasto segno - triste solitario y final - soltanto nella colonna marmorea, datata 1931, sita in piazza Umberto e ancora indicante con una freccia il Museo che non c’è. Eppure nell’ottobre 2005, in seguito ai ripresi scavi archeologici in piazza San Pietro (Bari vecchia) si erano sprecate le assicurazioni. Aveva affermato Divella: «E già stato realizzato il progetto di fattibilità che la Provincia ha affidato all’architetto Marcello Benedettelli». In quella occasione si ribadiva la promessa fatta nel precedente febbraio 2005: entro l’anno l’Archeologico sarebbe apparso - almeno - in web, i cultori ne avrebbero visto i reperti catalogati con immagini digitali in un sito internet.
Sono passati più di tre anni, ma - seppure questo può confortare il cittadino più che il cultore - neppure il museo virtuale è stato aperto. Per non parlare del «progetto Benedettelli», che si è arenato chissà in quali secche, come d’altronde miseramente naufragò il tanto strombazzato progetto di Gae Aulenti, che avrebbe dato prestigio alla nuova sistemazione museale nel restaurato monastero di Santa Scolastica, e avrebbe «riscritto» il nostro museo «à la parisienne». Sogni di gloria infranti. Si parla di un nuovo bando di concorso, che all’orizzonte non si scorge. Insomma migliaia e migliaia di reperti - circa trentamila - resteranno ancora per anni nascosti al cittadino (e, perché no, all’eventuale turista). Ne hanno goduto i ladri, che nel dicembre 2004 provvidero a rubare un centinaio di oggetti - tra vasi figurati, gioielli, strumenti per la estetica - che dovevano costituire una mostra sulla «Bellezza nell’archeologia », che così sfumò del tutto. Di quel furto, dei responsabili e di eventuali recuperi, non si è saputo più nulla. Sabbie mobili.
Patetica rischiò di risultare la esposizione in Santa Scolastica dedicata al «Corpo e la mensa», con reperti del «museo scomparso» mostrati con intento risarcitorio e con gusti da leziose vetriniste. Patetica, eppure utile: il cittadino ebbe allora una piccola riprova di ciò che gli era stato tolto. Le promesse hanno avuto ancora una volta l’effetto di mettere la sordina, di riavvolgere nel silenzio la incredibile paralisi, quasi mortuaria, che ha colpito il Museo archeologico da anni. Ha senso ancora domandarsi: chi sono stati i killers? A suo tempo parlammo di un omicidio alla Agatha Christie: una vittima, ma molti assassini. Colpevole la Soprintendenza: per un inetto ammodernamento della sede storica del museo, al primo piano dell’Ateneo. Colpevole l’amministrazione provinciale: troppo velleitaria nel volersi fregiare di un altro fiore all’occhiello, dopo Santa Teresa dei Maschi (ricordiamo che la collezione era gestita dalla Soprintendenza...) e abile, grazie a un contratto di comodato reciproco» firmato il giugno 2001, a far valere il suo titolo di proprietà e i programmi della politica esibitoria. Colpevole l’Università: che attraverso un accordo con la Provincia, si annetteva il piano nobile con il «salone degli affreschi» (dipinto appositamente per la collezione archeologica), e cedeva lo stabile di Santa Scolastica, che - è ormai evidente - ben poco si presta a una musealizzazione di tale importanza e vastità. E in qualche modo colpevoli gli intellettuali pugliesi: in realtà abbastanza silenti. Nonché la stampa: che registrò i silenzi con il silenzio e, poi, le promesse trionfalistiche con i resoconti fiduciosi.
Ognuno, insomma, aveva inferto la sua stilettata. Il sovrintendente archeologico Giuseppe Andreassi nel dicembre 2005 manifestò, sulla "Gazzetta", il suo disappunto e le sue ragioni. E così fece anche l’Università, attraverso un intervento di Ennio Triggiani. Certo che lo spostamento del Museo archeologico fu un doppio delitto: perché privò la collezione del suo contesto storico, il salone degli affreschi, che narrava i gusti antiquariali con cui la collezione si era andata formando. È un po’ come se si volesse spostare dalle sue stanzette il Museo Jatta di Ruvo! Ma ora, vorremmo sapere a che punto siamo. Vorremmo sapere se dobbiamo rassegnarci alla perdita.
Un ennesimo spiraglio sembra aprirsi per il Museo archeologico di Bari? È quello che si apprenderà dalla giornata di studio che la Soprintendenza e l’Università (Scuola di specializzazione in Archeologia) hanno indetto per il 19 maggio prossimo, chiamando a raccolta studiosi e cultori, amministratori e addetti ai lavori. Parteciperà anche Salvatore Settis, che in questi ultimi anni - grazie a un’assidua e martellante campagna divulgativa - si è mostrato valido alfiere del patrimonio culturale d’Italia, tanto ammirato, eppure tanto vituperato. Ma si tratterà di uno squillo di tromba per risvegliare le coscienze di cittadini e amministratori, oppure di un ulteriore «de profundis»?
Giacomo Annibaldis
Ma sul Museo archeologico provinciale di Bari una buona notizia c’è: è stata conclusa la «catalogazione» dei reperti affidata al consorzio Idria. È stato insomma effettuato un riordino degli oggetti con inventariazione essenziale e con un corredo fotografico in digitale. Censiti ben 17.500 reperti. Resta fuori tutta la vasta collezione numismatica, che ammonterebbe a circa diecimila monete. Da questo inventariamento e riordino è emerso, tuttavia, che negli anni alcuni reperti sono stati perduti: circa un migliaio. Resta anche da capire la consistenza del furto effettuato nel dicembre 2004. Soprattutto per i vasi figurati (quello, per esempio, con Telefo che minaccia di uccidere il piccolo Oreste, figlio di Agamennone) e per le fibule d’argento di Valenzano, che recavano iscrizioni dedicatorie del VI secolo a. C., rare per la Peucezia, l’antica Terra di Bari.
g. an.
Fonte: La Gazzetta del Mezzogiorno 10.3.2007
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