«Siamo partiti il 18 aprile 1947. Mio papà ha deciso di andare via con lâ??avvento delle truppe di Tito: ha avuto qualche diatriba e allâ??epoca le minacce facevano paura perché câ??erano quei maledetti buchi e lì se andavi in galera e non sapevi come. Così mio padre ha deciso». In questa breve ma significativa testimonianza raccolta da Enrico Miletto in «Lâ??Istria, lâ??Italia, il mondo. Storia di un esodo (2005)» si riflette la complessa vicenda del Confine orientale e delle inaudite violenze nei confronti degli italiani da parte dei comunisti jugoslavi seguaci di Tito, subito dopo la resa del nazifascismo.
Lâ??esodo forzato della popolazione italiana dallâ??Istria è una delle vicende più sconvolgenti e disperate dellâ??Europa tra guerra e dopoguerra. Oltre mezzo milione di istriani si trovarono senza patria, sradicati dalla terra natia costretti in massa a rifugiarsi in diverse regioni della penisola dal Piemonte alla Puglia. In due fasi distinte, nel settembre 1943, dopo lâ??armistizio, e soprattutto tra maggio e giugno 1945, migliaia di italiani delle zone di confine sparirono negli inghiottitoi, nelle cavità carsiche chiamate «foibe», vittime di ritorsioni, vendette e di una giustizia sommaria da parte dei partigiani titini. Le foibe da quel momento in poi si caricarono di un significato negativo, luogo di morte e di occultamento di atroci misfatti.
Gli equilibri etnici del Confine orientale, dove slavi ed italiani convivevano senza particolari ostilità e con una chiara caratterizzazione etnico- geografica - gli italiani erano più numerosi nei centri costieri mentre gli slavi erano maggioranza nelle aree interne -, subirono una prima incrinatura con i trattati di pace del 1919 ed in particolare con lâ??ascesa del fascismo al potere. Allâ??insegna di una parola dâ??ordine «italianizzazione forzata» il regime abolì nel 1923 lâ??insegnamento di lingue non italiane e impose lâ??italianizzazione dei toponimi vietando lâ??uso della lingua slava nei ritrovi e per strada; furono proibiti nel 1928 i nomi di battesimo non italiani e si procedette ad un programma di bonifica «etnica», con lâ??espulsione e il trasferimento dei contadini slavi, mentre una strategia repressiva colpì i gruppi dirigenti sloveni e croati con arresti e condanne da parte del Tribunale speciale. Nellâ??aprile del 1941 nellâ??ambito dellâ??operazione «Castigo» guidata da Goering la Iugoslavia fu invasa e occupata dallâ??esercito tedesco e italiano.
Il fascismo istituì diversi campi di concentramento, deportando migliaia di sloveni e croati anche nel Sud Italia, sulle Isole Tremiti, a Manfredonia, Alberobello, Marconia (Pisticci) e Ferramenti (Cosenza). Dopo lâ??8 settembre dallâ??isola di Arbe dove furono trasferiti assieme agli slavi, diverse centinaia di ebrei, un gruppo di internati riuscì a raggiungere lâ??isola di Lissa (Vis) e, successivamente, Bari dove furono sistemati prima in strutture provvisorie degli enti di assistenza e poi nel campo Transit di Carbonara; mentre quelli che non erano riusciti a scappare, dopo lâ??occupazione dellâ??isola da parte dei nazisti, furono trasferiti nella Risiera di San Sabba a Trieste (campo di transito e di sterminio).
Per gli italiani del Confine orientale e dellâ??Istria la situazione più drammatica si verificò agli inizi di maggio del 1945. Gli jugoslavi arrivarono nella Venezia Giulia con un preciso piano strategico che prevedeva il totale controllo della realtà locale. Appena cessarono i combattimenti con le truppe nazifasciste, centinaia di militari della Rsi (Repubblica sociale italiana) furono passati per le armi, mentre altre migliaia furono trasferiti nei campi di prigionia. Le autorità militari jugoslave dettero il via ad una massiccia ondata di arresti tra la popolazione civile. Una parte degli arrestati fu subito eliminata nel modo più sbrigativo, gettando i corpi nelle foibe, mentre molti altri furono deportati nei campi dâ??internamento titini. Furono colpiti non solo i membri dellâ??apparato repressivo nazifascista, elementi collaborazionisti italiani e slavi e esponenti del fascismo, ma anche membri del Cln giuliano (comitato di liberazione) che non accettavano lâ??egemonia jugoslava.
La repressione ebbe dunque un carattere preventivo diretta ad eliminare tutti gli oppositori anche quelli potenziali. Lo storico Raul Puppo sostiene che a Trieste, Gorizia, Pola e Fiume non si ebbe una violenza spontanea della popolazione slava contro quella italiana «bensì una repressione dallâ??alto». Lâ??obiettivo principale delle autorità jugoslave, dunque, «non era quello di eliminare sic et simpliciter gli italiani, ma di ripulire il territorio di tutti i soggetti che potevano mettere in discussione la saldezza del nuovo dominio e incrinare lâ??immagine di compattezza della partecipazione popolare agli obiettivi dei nuovi poteri». Il modello repressivo applicato («terrore rivoluzionario») fu uno dei più aspri del dopoguerra europeo.
Gli accordi stipulati con gli anglo- americani non furono sufficienti a sanare la situazione, ma si passò progressivamente dalle foibe allâ??esodo degli istriani che raggiunse la sua punta più alta nel 1947 dopo la firma dei trattati di pace. Ancora una volta Bari e la Puglia accolsero migliaia di connazionali provenienti da Zara, Fiume, Pola e dalle altre località dellâ??Istria, assieme ad altri italiani provenienti dalla Dalmazia, dalla Grecia e dalle isole del Dodecaneso. Nei centri di raccolta profughi (CRP) alla periferia Nord del capoluogo pugliese, a Santeramo, ad Altamura, a Barletta, a Brindisi ed in altre località del territorio regionale per oltre un decennio furono ospitati centinaia di nuclei famigliari che vissero da «displaced persons». A Bari nel 1956 con la costruzione di circa 300 mini appartamenti gran parte dei profughi rimasti - molti seguirono le strade dellâ??emigrazione dal Nord America allâ??Australia - fu sistemata al Villaggio Trieste, tra via Verdi e via Mascagni, nei pressi del vecchio stadio. La condizione di isolamento, tuttavia, restò impressa in questi esuli che si sentirono talvolta «più reclusi che assistiti».
VITO ANTONIO LEUZZI
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BARLETTA - LA TESTIMONIANZA DEL PROF. GIUSEPPE DICUONZO, ESULE ED AUTORE DI UN LIBRO
Giorno del ricordo: oggi, mercoledě 10 febbraio, in occasione del Giorno del Ricordo, istituito per onorare i martiri delle foibe, l’ammi nistrazione comunale appone una lapide commemorativa presso l’ex caserma Stennio, in via Manfredi, dove nel secondo dopoguerra si rifugiarono numerosi istriani, dalmati e fiumani per scampare alla repressione del regime slavo. Alla cerimonia di scoprimento della lapide, prevista per le ore 11, interverranno il prefetto della Provincia Barletta, Andria, Trani, Carlo Sessa; il sindaco Nicola Maffei e l’assessore provinciale al Bilancio, Dario Damiani. Interverranno autoritŕ militari e religiose, rappresentanti d’associazioni combattentistiche e d’ar ma.
«Oggi - sottolinea il prof. Giuseppe Dicuonzo, presidente della delegazione provinciale di Barletta, Andria, Trani e referente Puglia-Basilicata della Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia - commemoriamo il “Giorno del Ricordo”, istituito in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. E’ tempo che il mondo sappia dove e come sono stati compiuti quegli eccidi tenuti per decenni quasi fossero una vergogna per la nostra civiltŕ. Tutto il mondo conosce la storia dei lager nazisti e i motivi perversi dell’olocausto. I campi di sterminio sono diventati veri e propri santuari di una memoria condivisa. Altrettanto deve avvenire anche per le vittime del comunismo: prime fra tutte le foibe. Solo chi, come me, ha suběto in prima persona l’esperienza dell’esodo o č stato toccato negli affetti dalla tragedia delle foibe ha diritto di parlare. Coloro che affermano “Io ricordo”, solo per aver sentito o letto accadimenti piů o meno veritieri, scritti da pseudo storici di parte, farebbero bene a tacere. Bisogna fare memoria attraverso la testimonianza diretta gridando, se occorre, “Io c’ero”».
«Fare memoria della tragedia da noi vissuta in quegli anni in questo giorno - aggiunge Dicuonzo - č doveroso atto di giustizia. Sono tre le ragioni che hanno spinto gli italiani all’esodo: il terrore delle foibe, in cui una inumana ferocia ha gettato migliaia di persone, uomini, donne, vecchi, bambini incolpevoli; la ricerca della libertŕ democratica per sottrarsi al regime comunista-marxista instaurato da Tito; la persecuzione religiosa. Il martirologio giuliano registra il sacrificio di 39 intrepidi sacerdoti uccisi. Il ricordo, invece, vuole essere un omaggio ed un giusto riconoscimento a tante persone che hanno sofferto colpite da atrocitŕ indicibili».
La Gazzetta del Nord Barese
Mercoledě 10 febbraio 2010