31/07/2011. IL PANE DI CASA NOSTRA AI TEMPI DI ANNIBALE... DI FERRUCCIO GEMMELLARO.
Dal Fiduciario del nostro Comitato per la Regione Veneto, lo scrittore editorialista Ferruccio Gemmellaro (autore del romanzo "Iride, l'amante italiana di Annibale", presentato lo scorso anno a Canne della Battaglia) presentiamo il suo speciale contributo letterario e storico alle celebrazioni del prossimo 2 agosto.
IL PANE DI CASA NOSTRA AI TEMPI DI ANNIBALE
Un amalgama di grezzi cereali pestati e cotto su pietre calde, questo è il pane ante litteram consumato all’alba dei popoli e ancor oggi in paesi africani.
La letteratura parla d’impasto ottenuto finanche con i granelli delle spighe di erbe selvatiche, vedi l’Hordeum spontaneum.
Furono gli egizi, poi, con la scoperta del lievito e con il miglioramento della coltivazione cerealicola a imprimere al pane un’inarrestabile evoluzione, ferma restando la tonalità scura; inizierebbe qui il trattamento nei campi di farro allo scopo di condurre quest’antichissimo frumento alla bontà edibile del grano.
Ai tempi della campagna militare di Annibale, dunque, il pane divulgatosi nell’Apulia era di richiamo al moderno risultato esportato dai greci tra gli italioti, i loro discendenti stanziatisi sugli estremi lidi meridionali.
Gli Ellenici lo avevano valorizzato con la novità dell’aggiunta del latte, o miele o vino, e di appetibili essenze d’erbe, e poi con lardo, pepe, olio; in ogni caso, la sostanza base dava al pane ancora un colore affumicato, che i romani indicavano con cibarius, alquanto economico, o con autopyrus “non setacciato”. Pare, però, che in seno al grossolano macinato cerealicolo di allora, si andasse a ridimensionare quell’inesorabile percentuale d’inquinamento, specie di polvere e sabbia.
Altra originalità greca dell’epoca era data dal costume di infornare nottetempo, acciocché al mattino si avesse il pane fresco; una convenzione che sarebbe stata adottata via via in tutto lo stivale e oltre in Europa.
Dalla piastra litica e dai forni primitivi di pietre compatte, l’infornatore era passato alla tecnica dei vasi in terracotta posti a riscaldamento quanto bastava; indi, scostato il fuoco, li chiudeva ermeticamente con un idoneo ciottolo dopo che aveva introdotto i panetti, i quali, così, si cuocevano nella corretta misura e nel tempo previsto secondo la loro consistenza.
Negli anni in cui ci riferiamo, però, i forni avanzati avevano già assunto la conformazione bicamere, dove in una si accendeva la legna e nell’altra si adagiavano le forme di pane, le quali sarebbero state tolte a cottura giusta; insomma è la nota tecnica dei forni a legna.
Nel periodo postbellico punico, si sarebbe oltremodo diffusa la farina romana, vale a dire quella bianca ottenuta dal grano tenero, assieme a un più deciso impulso alla disposizione dei forni pubblici, già prerogativa greca, questi ancora ben frequentati dai nostri diretti ascendenti nel secolo scorso.
In una coincidenza storica, il pane di farina bianca, il siligeneus, col quale i romani vittoriosi avevano fatto familiarizzare le genti delle regiones meridionali, ricorda il pane bianco degli americani altrettanto vincitori, distribuito nel dopo guerra con il piano Marshall alle nostre disgraziate famiglie sopravvissute all’olocausto.
C’era, però, bianco e bianco; infatti, gli attributi di fine e finissimo del panis secondarius e del panis candidus, mundus sarebbero arrivati con l’egemonia e le cittadinanze capitoline, ma a beneficio, come il solito, degli abbienti.
Il termine Farina, così coniato dai latini, che sarebbe entrato nel vocabolario italico già durante le guerre puniche, mercé l’imponenza lessicale dei romani, è connesso con l’antico radicale indoeuropeo Bhars1 donde il latino Farrem e l’italiano Farro; frumento che conterebbe millenni di dimestichezza da parte dell’uomo coltivatore, prima ancora della civiltà egizia, oggi rivalutato dopo anni di trascuratezza.
Insomma, il Farro è l’arcaico cereale, il primordiale che dopo secoli e secoli di rimaneggiamento agricolo è coltivato nei requisiti che oggi conosciamo, grano duro e tenero.
Infine, delle forme di pane associate a circa settanta qualità realizzate in Grecia, che cosa si panificava nel meridione; escludendo quelle precipue, modellate dagli italioti per devozione e offertorio, ereditate dalla madrepatria - ad esempio le achenas a figura di capra per la dea Demetra - il pane quotidiano non aveva particolari modelli.
La greca Demetra sarebbe stata omologata nella romana Cerere, la dea appunto dei cereali.
Il maggior consenso, tuttavia, spettava al pane cotto sul braciere, che per la propria tipicità era destinato a essere gustato intinto nel vino, verosimilmente quale unico pasto.
Si modellavano, per le occasioni, pani a guisa di fungo cosparso con semi di papavero, e poi a cubo, a filone, a fiore, a treccia… sagome queste ancora oggi mantenute con il pane a cassetta, con le baguette, le rosette e le trecce.
Ferruccio Gemmellaro
Meolo (Venezia)
Note. 1) Si ricorda per una maggiore comprensione che il gruppo letterale BH, così come DH e PH, tutti indoeuropei, si sono svolti nel fonema italiano F.
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