18/10/2008. ANNIBALE - MACCHINA DA GUERRA E GRANDE INCANTATORE.
Personaggi. Il viaggio di Paolo Rumiz sulle tracce del vincitore di Canne: verità storica e leggenda Il mito di Annibale: macchina da guerra e grande incantatore
Viaggiare è darsi una meta per poi scoprirne altre all' infinito, ma può diventare anche il modo per vivere un sogno che sappia allontanare una realtà che la stanchezza di uomini avviliti ci ha reso insopportabile. Paolo Rumiz va sulle orme di Annibale che parte da Cartagine, attraversa Spagna e Francia, valica le Alpi, scende in Italia e infligge a Canne una sconfitta memorabile ai romani, nella Grande guerra del mondo antico. Poi, richiamato, torna in patria per essere travolto a Zama e infine scappa nel Bosforo, dove si suiciderà pur di non cadere nelle mani del nemico. Certo, Annibale è il condottiero feroce che semina morte, è lo stratega spericolato che incanta con il suo «capolavoro tattico» di Canne «generazioni di allievi alle scuole di guerra», che ha saputo mettere in ginocchio e far tremare Roma, la più formidabile «macchina da guerra», non solo dell' antichità. L' impresa è così potente che Cesare, Carlo Magno e Napoleone sono «tutti degradati al rango di squallidi imitatori di un' idea». Ma non è tanto questo ciò che affascina il viaggiatore nel seguirne le incerte tracce. Non è la verità storica che interessa a Rumiz, anche se nel suo andare incontra storici accademici e dilettanti, segue le pagine di Polibio e Livio, consulta mappe. Annibale rimane comunque inafferrabile. Aleggia in ogni luogo, ma è sempre altrove, sfugge continuamente, è sempre un passo più in là: «Trovo la cenere ancora calda dei suoi bivacchi, l' eco delle voci della sua retroguardia, l' odore delle bestie da soma; ma Annibale - magari per un soffio - è regolarmente più avanti di me». Il condottiero non ha volto, come se la storia l' avesse voluto cancellare. È uomo solo, «senza donne, senza amici, senza figli, senza discendenza, senza emuli; esemplare unico e irripetibile». Eppure può diventare all' improvviso splendido esibizionista. Talvolta sembra scegliere «i luoghi per la loro visibilità scenografica più che per la loro importanza strategica». Pare votato a creare di sé un mito più che a cercare un' impresa memorabile. «Dove è passato Annibale la magia resta, e la peste dei non luoghi non attecchisce. C' è un' energia primordiale che percepiamo ovunque». Così anche quando il condottiero si cela diventa «eccitante» il «suo andare per zone d' ombra, traendo vantaggio dall' ombra stessa per diventare leggenda, come se già pensasse a risparmiare ai posteri la noia della storiografia su di lui». Ed è questo il punto centrale del bel libro di Rumiz (Annibale. Un viaggio, Feltrinelli), ciò che ne fa più che un reportage di viaggio, un confronto tutto interiore con la storia: «Mi chiedo come ha potuto questo figlio di un popolo marinaro, diventare il re delle battaglie campali. Penso che seguire Annibale è molto meglio che seguire una guerra vera. Almeno non corro il rischio di essere embedded, di finire intortato dai bugiardi uffici stampa degli stati maggiori. E poi, le rovine di un passato millenario non sono forse più eloquenti del deserto contemporaneo dei non luoghi? E non sarà che, in un mondo dove tutto è diventato vicino con Internet e la tv, star lontano dagli eventi è diventato l' unico modo per capire le cose?». Rumiz rende spesso esoterico il suo viaggio. Coglie sorprendenti «coincidenze»: il nome di Annibale compare ovunque, specie in Italia, trionfa nella leggenda tanto che «nemmeno il nome di Scipione, il vincitore di Zama, il Grande Vendicatore, ha tanta forza nel Paese che pure del suo elmo s' è cinta la testa». Quando il «viator» si cala nella leggenda il sordo rumore dei Tir si trasforma in un concerto di «barriti» di elefanti, scompaiono piloni di cemento, tunnel, tralicci d' alta tensione. Tutto è ridotto a una «nudità primordiale» e anche «l' umanità più squallida» nei suoi luoghi «riemerge con l' aura del mito». È la forza dell' immaginazione che riesce a trasformare l' apparire di uomini d' oggi in figure senza tempo e a legittimare una «perfetta allucinazione» che appaga un sogno. «Passa un contadino sul trattore, ma io vedo un centauro, mezzo uomo mezzo cavallo, garretti lucidi e zoccoli infangati». Tra Cassino e Teano il viaggiatore intercetta «gigantesse africane in agguato accanto a roghi violetti nella sterpaglia, giovani fauni nella foresta, ombre di nere proserpine confabulanti nei villaggi, torvi Sanniti al pascolo sulle praterie, baccanti italiote dagli occhi di lupa che si svegliano al tramonto». All' inizio del libro Rumiz si era chiesto che cosa stesse cercando nel proprio viaggio e aveva avanzato un dubbio: che Annibale fosse per lui non un personaggio storico ma «una malattia». Il dubbio viene tuttavia subito liquidato: «I viaggi, in fondo, sono fatti per confermare i miti, non per demolirli». Quando saremo a metà strada nel cammino, nel pieno della ricerca, leggeremo un dialogo tra il «viator» e un professore di Bologna di storia antica che lo accompagna. I due si perdono. «Secondo te siamo pazzi?» chiede Rumiz e il professore: «Se si insegue un mito è normale smarrirsi». «Ma oggi - obbietta l' altro - il mito non c' è più. Nessuno lo ricerca». «La morte del mito - ribatte il professore - è la cosa più oscena dell' oggi. È la fine dell' incantamento, dell' immaginazione, del desiderio... Senza quella cosa l' uomo si perde, diventa un grande invalido. Perciò andiamo siamo sulla strada giusta». *** L' autore Paolo Rumiz (1947), scrittore e giornalista, è autore di reportage e racconti di viaggio I libri Tra i suoi libri: «Maschere per un massacro» (Editori Riuniti); «È Oriente» e «La leggenda dei monti naviganti» (entrambi editi da Feltrinelli)
De Rienzo Giorgio
Pagina 48 (18 ottobre 2008) - Corriere della Sera
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